Hey Jude

Roberto Beccantini21 novembre 2022

Diario mondiale, prima puntata. Introdotto dal rotondo 2-0 dell’Ecuador al Qatar, doppietta di Valencia, piano piano si entra nel vivo.

** Inghilterra-Iran 6-2. Gli iraniani non hanno cantato l’inno. Gli inglesi si sono inginocchiati. Ma niente fascia arcobaleno. «Sconsigliata»: Infantino infantile. Poi la partita. A senso unico. E non solo perché Queiroz ha perso subito il portiere. Troppo forte, l’England del re e non più della regina. I gol: Bellingham, Saka, Sterling, ancora Saka, Taremi, Rashford, Grealish, Taremi di penalty. Su tutto e su tutti, Jude Bellingham, classe 2003, pulizia e geometria («Hey Jude», cantavano i Beatles: non per lui ma fa lo stesso). A secco, Harry Kane. Il vecchio leone ha controllato la caccia dei cuccioli, proteggendone le giovani fauci. La curiosità: 27 minuti di recupero tra infortuni e cambi. Però.

** Senegal-Olanda 0-2. Equilibrio diffuso, fra squadre alla ricerca di una scintilla che accendesse il gioco. O almeno, gli episodi. Togliete Mané a qualunque tecnico e poi riparliamone. Alla fine, ha vinto Van Gaal. «Alla fine» in tutti i sensi, visto il minuto delle reti: 84’ Gakpo, 99’ Klassen. Pendono, sull’esito, i riflessi lenti di Mendy. Inoltre: Koulibaly di mestiere, Dumfries e De Ligt non sempre a proprio agio, De Jong un po’ stranito.

** Stati Uniti-Galles 1-1. Un tempo a testa. Il primo, tutto americano. Esterno destro di Timothy Weah, figlio di, splendidamente smarcato da Pulisic. Il secondo, quasi tutto dei Dragoni. Page, il ct, azzecca la mossa: dentro Moore, una torre. Berhalter, viceversa, si addormenta sul cuscino del vantaggio. E’ una fotta sesquipedale di Zimmerman a offrire a Bale il rigore dell’onesto pari. Ho cercato Ramsey senza trovarlo. Ho trovato McKennie senza cercarlo: alla periferia, mezzo acciaccato. Un classico. Usa e getta.

Le volpi del deserto

Roberto Beccantini19 novembre 2022

Comincia domani, con Qatar-Ecuador, la fase finale della Coppa del Mondo, sino al 1970 intitolata a Jules Rimet. La prima in un Paese arabo, la prima in autunno (per noi europei), la terza senza l’Italia (dopo 1958 e 2018), l’ultima a 32 squadre: dal 2026 saranno 48 e si giocherà in Canada, Messico e Stati Uniti. Pecunia non olet. Il pianeta ha da poco toccato gli 8 miliardi di abitanti; il Mondiale rimane, però, una lobby esclusiva. Le edizioni in archivio sono già ventuno, ma non più di otto le nazioni che ne decorano la bacheca: Brasile 5, Germania e Italia 4, Argentina, Francia e Uruguay 2, Inghilterra e Spagna 1. Dal 1978, anno in cui si affacciò l’Argentina di Mario Kempes, si sono registrati appena due «intrusi»: la Francia di Zinedine Zidane nel 1998 e la Spagna delle «sartine» nel 2010.

Sarà l’ultimo tango di Leo Messi, 35 compiuti, e di Cristiano Ronaldo, 38 a febbraio. La Pulce vi arriva dalla Versailles del Paris Saint-Qatar (a proposito), Cierre travolto da un Ego così isterico e protervo che il Manchester United sta meditando di cancellarlo. La mia favorita è l’Argentina, il cui «padrone» sembra finalmente evaso dalla prigione dentro la quale lo avevano relegato gli scabrosi paragoni con Diego Maradona e gli imbarazzanti dislivelli di rendimento fra Barcellona e «Seleccion».

Poi il Brasile di Neymar, Gabriel Jesus e della Maginot juventina; quindi la Francia di Kylian Mbappé, regina a Mosca, anche se le mancheranno mezzo centrocampo (N’Golo Kanté, Paul Pogba) e Sua maestà il pallone d’oro, Karim Benzema. Più distanti, ma non troppo, Germania, Belgio (eterno incompiuto: esplode o implode), Spagna e Portogallo (vedi alla voce Cristiano). Hans-Dieter Flick e Luis Enrique sono a caccia di gol:
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E Max incartò Mau

Roberto Beccantini13 novembre 2022

Sembrava, almeno all’inizio, una sfida tra due calvi che si contendono un pettine. Allegri, invece, aveva in tasca un parrucchino: Kean. Decisivo già giovedì, a Verona, su assist di Rabiot. E due volte, addirittura, allo Stadium: il gol dell’1-0, al crepuscolo del primo tempo, con un superbo lob su invito di Rabiot (ancora); la rete del 2-0, in avvio di ripresa, di tap-in, su cambio-campo di Locatelli e botta di Kostic deviata da Provedel. E così Juventus tre Lazio zero, perché poi Chiesa, entrato con Di Maria, ha spalancato la porta a Milik.

Scritto che il peggiore è stato colui che, di solito, è il migliore, Milinkovic-Savic, il migliore in assoluto non lo avrei mai tolto: alludo a Kean. Ma anche senza Moise, Madama ha continuato a controllare/dominare la trama. E allora, chapeau mister. Si trovavano di fronte i bunker più blindati, formazioni crivellate d’infortuni. La Juventus ha trovato in Kean una lama alternativa a Vlahovic. La Lazio non ha trovato un vice Immobile (se non le bollicine di Pedro). E’ mancata proprio in area, l’Aquila, là dove Bremer, Gatti (pur ammoniti) e Danilo hanno sigillato ogni pertugio. Max ha incartato Mau con il 3-5-2, lo schema dell’ultima (e provvidenziale) svolta. Sei vittorie di fila, terzo posto. E giovani come Fagioli (e Miretti) pronti al momento giusto. Fatta di necessità virtù: e di virtù necessità.

I ritmi lenti hanno garantito quelle soste e quelle fiammate che magari, su altri schermi, sono il pane quotidiano. E’ stata una Juventus globalmente vicina alla ripresa con l’Inter. Una squadra fisica e abbastanza tecnica. Attorno a Danilo sono cresciuti (molto) in molti: Kostic, Rabiot, Locatelli, Bremer. Kean a parte.

Era l’ultima del 2022. Si riprenderà il 4 gennaio, con Inter-Napoli. Dal quale la Juventus resta a dieci punti. Ma non è più la cenere di Monza e di Haifa.